Marco Peruffo
è nato a Vicenza il
13.12.69.
Residente a Castelnovo
di Isola Vicentina, impiegato, sposato, diabetico insulino trattato dal
1979. E' socio della sezione del C.A.I. di Vicenza. Arrampicatore dolomitico
ha percorso molti tra gli itinerari più belli ed impegnativi dell'arco
alpino orientale. Ha partecipato ad alcune spedizioni extraeuropee tra le
quali: Perù, Ande - Cordillera Blanca: vetta dei Nevadi Alpamayo (5946 m),
Pisco (5756 m), Urus (5495 m), Ishinca (5553 m) e tentativo al Nevado
Huascaran (6768 m); Argentina, Ande: Cerro Aconcagua (6960 m) e tentativo
sulla via Diretta dei Polacchi, parete est, fino a 6450 m; Tanzania: Monte
Kilimanjaro (5895 m); Kenya: Monte Kenya (5199 m),
Crossing Traverse per la
cresta nord, via dei francesi.
Io,
diabetico. Convivere con il "dolce male"
(Tratto da: “Salute
suppl. de La Repubblica)
Dalla scoperta che non poteva deliziarsi con torte e cioccolata come gli
altri bambini alla sfida dell’alpinismo, Marco Peruffo racconta la malattia.
Quando
il diabete decide di colpire sa come fare. A Vicenza, quattro generazioni
della famiglia Peruffo hanno combattuto, e lo fanno ancora, le insidiose
bizzarrie degli zuccheri nel sangue. Marco, però a 36 anni, ultimo di cinque
figli, laurea in legge, funzionario amministrativo, sposato con Sara e
alpinista per passione, non ha rancori nei confronti del “male dolce”.
Mentre racconta i ventisette anni da diabetico insulino-dipendente e come ha
visto cambiare il trattamento del diabete, confessa: «certo sarebbe meglio
se non ci fosse, ma ci sono tante malattie peggiori. Autocommiserarsi non
serve. Invece, devi capirti dentro. Il diabete lo devi guardare in faccia,
non devi negarlo perché c’è comunque e se non lo affronti è lui che prima o
poi ti frega. Devo ringraziare la mia famiglia, i miei genitori, mia moglie,
le mie arrampicate, se fino ad oggi non ho complicanze…».
Merito anche della sua forza di volontà, del suo continuo mettersi alla
prova. E lui, parla delle sue montagne e delle arrampicate. Le prime sulle
piccole Dolomiti vicentine in una estate lontana senza vacanze, rimandato in
tre materie. «Ho cominciato per gioco», dice, «arrampicare mi dava una
sensazione meravigliosa. Cercavo la fuga ma ho capito che dovevo conoscermi
attraverso i punti di forza e i limiti della mia malattia, da quell’anno ho
iniziato a curare veramente il diario, prezioso strumento di autogestione».
Lo scorso agosto scala il Peak Lenin nell’altopiano del Tamir, 7.134 metri.
La sua mente e il suo corpo sono sulle vette – la prossima supera gli 8.000
– che l’hanno aiutato ad accettare il diabete. Poi, ricorda gli anni in cui
c’era solo la glicosuria da fare al mattino, a pranzo e a cena, le punture
dolorosissime, le allergie da insulina di suino, i primi reflettometri
arrivati nell’82, poi l’inserimento all’Università di Padova in uno studio
sperimentale sull’insulina umana entrata in commercio attorno all’86.
«Siamo stati sempre una famiglia attenta alla salute, si faceva attività
fisica. Dopo nonno e una zia, papà si ammalò di diabete di tipo I nel 1976,
perciò tutti noi figli facevamo un controllo annuale, in genere in ottobre.
Nel 1978 presi la mononucleosi. Nel 1979 persi molto peso, ero sempre
stanco, disidratato nonostante bevessi litri d’acqua. Il 26 dicembre la
diagnosi: diabete giovanile. Non avevo ancora nove anni e sul momento la
cosa mi sembrò bella perché l’aveva anche il papà. Quando cominciai a fare
tre iniezioni di insulina al giorno mi resi conto che la mia vita era
cambiata completamente». Il padre è per Marco la figura di riferimento,
anche nei periodi più duri, quelli del rifiuto, della ribellione tra gli 11
e i 18 anni.
«Ero gracile, senza una ragazza, insomma avevo un latente complesso
d’inferiorità. Enorme l’appoggio e lo stimolo dei miei genitori, ricordo che
provavo a fare le punture sulle patate, i primi tempi me le faceva papà, poi
un giorno mi disse “Marco, devi imparare a fare da solo” e compresi che lo
faceva per il mio bene. Farle da solo la prima volta fu un momento di
libertà. Mi è mancata molto la Nutella perché in quegli anni a un diabetico
quasi tutto era proibito. Poi le cose, ad eccezione di quelle burocratiche,
sono cambiate in meglio, anche se la storia della malattia dipende sempre da
una scelta personale. Una notte, verso gli undici anni, andai in coma
ipoglicemico. Allora non c’erano le terapie intensive, oggi in venti minuti
il problema si risolve. Quei giorni mi lasciarono dentro un senso di
profonda insicurezza anche perché non avevi certezze, il dosaggio
dell’insulina si stabiliva su delle sensazioni, e così era per gli altri
diabetici».
E a scuola? «Tanta solidarietà da parte delle insegnanti e un appoggio
istintivo dai compagni». I medici? «Giuseppe Erle , primario all’ospedale di
Vicenza, è stato per me un padre putativo, mi ha insegnato a fronteggiare il
diabete come tutti i medici dovrebbero fare con i loro pazienti. Da quando è
andato in pensione sono emigrato al centro diabetologico di Treviso, da
Massimo Orrasch che si occupa molto di diabete e sport e mi ha emancipato,
se così si può dire, infatti, col suo aiuto sono passato da otto mesi al
microinfusore». Infine Sara.
La giornata di Marco comincia alle sei con tanta frutta di stagione, yogurt
e due fette di pane con marmellata. Alle dieci e trenta una mela contro
l’abbassamento della glicemia. Alle tredici e trenta una pastasciutta con un
filo d’olio se la sera c’è allenamento, altrimenti una insalatona mista.
Dalle diciotto alle ventuno allenamento, quindi a cena con una primo (zuppa
d’orzo, risotto), un secondo e un contorno (carne o uova, insalata o
verdura), i dolci solo prima di andare a letto. Vino raramente, formaggi con
parsimonia, pane integrale, acqua minerale. La pizza un paio di volte al
mese. E le iniezioni di insulina. «Il microinfusore», spiega Marco, «è
comodo perché lo programmo: 18 unità di insulina basale al giorno, e 15 in
boli per coprire i pasti, poi ci sono i controlli della glicemia tutti i
giorni, da 6 a 8 nelle 24 ore fino a 12 durante l’attività in montagna; i
controlli ogni due mesi della emoglobina glicata, e quelli degli occhi e
tutto il resto».
Un messaggio a chi non conosce il diabete. «Ai genitori di investire nel
figlio diabetico, perché lui trova sostegno dalle piccole cose. Al
diabetico: reagire. Perché tra reagire e non reagire la differenza la
facciamo noi, sempre».
MARIAPAOLA SALMI |